Basta che nel negozio e nello studio professionale ci sia un computer, oppure un semplice monitor, uno smartphone, un iPad, un qualsiasi strumento atto o adattabile a ricevere le trasmissioni tv, anche se non collegato ad Internet. E la Rai chiede il pagamento di un canone tv speciale, da almeno 200 euro.
Lo può fare — e lo sta facendo — riesumando, interpretando ed adattando ai tempi norme del Ventennio Fascista fino ad oggi trascurate (il Regio Decreto Legge 246/1938 e il Decreto Legislativo Luogotenziale 458/1944), che stabiliscono l’obbligo del pagamento di un canone a carico di chi “detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni”. Migliaia di negozianti e studi professionali, piccole imprese, medici di base, farmacisti, veterinari stanno così ricevendo in queste ore il perentorio sollecito a pagare il canone Rai speciale sul presupposto che posseggano almeno un computer. Ed è dal 2007 che l’Aduc si sbatte invano presso Rai, autorità fiscali e persino il Parlamento (sei interrogazioni) per sapere se siano obbligati a pagare anche i turisti stranieri che varcano il confine con uno smarthphone o un iPad atto a ricevere le trasmissioni Rai. Nessuna risposta certe. Ma intanto arrivano i bollettini da pagare e le categoria sono in rivolta.
La protesta, contro un balzello che si stima valga 980 milioni di euro, sale dalla Toscana ma sta pervadendo tutte le regioni d’Italia. Confartigianato. Infuriati lo sono anche alla Confartigianato. «Poco importa che computer e telefoni siano strumento di lavoro e che la connessione internet sia obbligatoria per chi lavora con la pubblica amministrazione» protestano le associazioni di categoria. «A contare — si lamenta Gianna Scatizzi, presidente di Confartigianato Imprese Firenze — è solo un’opportunità di far cassa sulle spalle delle imprese (da 200,91 a 6.696,32 euro/anno di canone tv per ognuno degli oltre 9 milioni di imprese e professionisti esistenti) enorme ed indecente, tanto per il periodo di crisi ed i sacrifici imposti dal governo alle imprese, quanto per l’insensatezza di un’imposta basata sull’ipotesi e la possibilità d’accesso, piuttosto che sull’utilizzo reale di un servizio. Come se noi, imprenditori e dipendenti, usassimo il computer per guardare fiction o partite di calcio in orario di lavoro». Fonte Repubblica